La tua fotografia è, per chi sa veramente vederla, una registrazione della tua vita. Tu puoi vedere i modi di altre persone ed esserne influenzato, puoi persino servirtene per trovare il tuo, ma col tempo dovrai liberartene. Questo intendeva Nietzsche quando diceva: “Ho letto Schopenauer, adesso devo sbarazzarmi di lui”. Sapeva infatti come possono essere insidiosi i modi di altre persone, soprattutto quelli che hanno la forza di un’esperienza profonda, se tu lasci che s’intromettano fra te e la tua visione.
[Paul Strand - da “Sulla fotografia” di Susan Sontag, Einaudi, trad. Ettore Capriolo]
Ciao criaturella aggraziata,
con oggi sono a tredici giorni senza instagram. Come dicono per le relazioni amorose, quando smetti di contare i giorni vuol dire che ti è passata. La dipendenza, nel mio caso.
Da quando ho disattivato l’account ho posto maggiore attenzione ai miei comportamenti. I primi tre giorni sono stati i più semplici: la sensazione di sollievo era tale da non permettermi di sentire altro che leggerezza. Dopo mi sono accorta che il mio corpo mi inviava degli input molto precisi. Scrolla! Scrolla! Tamara devi scrollare! Perché non stai scrollando? Mi sono ritrovata così con lo smartphone in mano a compulsare con le dita senza alcuna ragione sulle altre app, quelle di messaggistica, senza scrivere niente, senza comunicare niente. Solo purissimo scroll. Mi sono resa conto di quanto il mio corpo abbia assorbito questa serie di azioni e ho pensato: se si è abituato a questo, può farlo anche con altro.
Ho iniziato a lavorare di sostituzione: se il corpo chiede scroll apro un libro e leggo. Anche solo per cinque minuti, leggo. Una delle cose che facevo appena sveglia era aprire i social, scrollare, che succede? (niente), chi mi ha scritto? gioia (momentanea), malumore (più difficile da allontanare).
Allora mi sono inventata un’abitudine diversa, con l’unico scopo di arricchire il mio linguaggio che trovo essere diventato sempre più povero. Mi alzo, bevo il caffè e prendo il vocabolario (sì, quello di carta, quello pesante, quello grosso, quello che quando me lo hanno regalato ho pianto perché l’avevo sempre desiderato), apro una pagina a caso e leggo la prima parola che mi compare sotto gli occhi. Poi la segno su un quaderno. La parola di oggi è: fregagione che sarebbe l’atto di strofinare energicamente qualche parte del corpo, soprattutto a scopo curativo ma significa pure moina, complimento.
Insomma, non è la FOMO (che forse sono una delle poche a non provare) quanto la dipendenza dalle azioni a lasciarmi perplessa.
Fatti Beauty (uno solo, un po’ lungo)
Nonostante io sia assente dai social, finisco per sapere comunque di cosa si parla. Qualche giorno fa una nota influencer/imprenditrice che ha costruito la sua carriera partendo da youtube fino ad arrivare a diventare creatrice di un brand di cosmetica ha pubblicato un video in cui si lamenta di come ormai i social siano diventati terra di nessuno, che internet è brutto e cattivo, che il mondo beauty è tossico e che prima invece era tutta campagna. Dice di avere paura di esprimersi perché c’è sempre chi distorce le sue parole, le rigira, le riprende (non è forse per questo che ne ho letto su La Repubblica?)
E lo fa ovviamente piangendo, perché il pianto, così come la polemica, polarizza e ingaggia, termine orrendo che spero mi lascerai passare.
Io, al contrario di internet, non ho la memoria corta e c’ero quando le prime beauty vlogger si affacciavano timidamente sulla piattaforma. Le polemiche, le conventicole, gli sgambetti non sono una nuova invenzione, anche allora funzionava nello stesso modo. Certo è che il numero di competitor era meno elevato: ora è impossibile contare quante wannabe influencer ci siano, tutte più o meno con lo stesso obiettivo: diventare famose e fare i soldi. In questo contesto, nessuno è interessato a dire la verità sui prodotti cosmetici che riceve per due motivi, molto semplici: uno, perché sono un “regalo” e perché spesso la recensione prevede un compenso, due, perché se voglio raggiungere il mio obiettivo (fama, soldi) non mi inimico certo le agenzie o i brand che possono aiutarmi a farlo. Le competenze sono secondarie, in alcuni casi addirittura ininfluenti.
Da quando ci sono i social quello che è diventato centrale è il personal branding. Inizialmente era “comunica ai tuoi potenziali clienti quali sono i tuoi punti di forza, le tue conoscenze, i tuoi valori” ma presto è diventato “racconta tutto della tua vita perché le persone comprano te, soprattutto te, il tuo carisma, la tua bellezza, la tua capacità di persuasione”. Che tu venda un servizio o un prodotto valido chissenefrega, le persone comprano te. Allora chi si è lanciato nel mondo beauty l’ha fatto con la sua faccia e il suo nome; ci ha raccontato chi ama, dei suoi figli, dei suoi animali da compagnia, di quante volte si allena e come, di cosa mangia, di cosa beve, quali locali frequenta, chi sono i suoi amici (altri influencer, che strano!), dove va in vacanza. Ci ha fatto assistere al suo matrimonio, alla nascita dei suoi figli, al suo divorzio.
Tutto è utile a muovere la curiosità delle persone, a creare quelli che in gergo si chiamano evangelist, quelli che darebbero un arto nonostante vedano solo la parte di mondo che l’influencer si è sapientemente costruito intorno.
E mentre ogni giorno l’influencer di turno cede un pezzetto di sé (e forse si sente stanco e un po’ stretto e che non gli va poi tanto però lo sa che funziona e poi comunque può fare un video per dire che prima era tutta campagna), il follower si sente sempre più parte della famiglia. Entra in un gruppo che solitamente ha anche un nome (lo faccio anch’io, le chiamo Aggraziaters), si sente riconosciuto da quelli che percepisce suoi pari e infine, così come si farebbe con qualcuno di molto caro, è pronto a sguainare la tastiera per difendere il suo idolo, che non conosce ma con cui sente che i gradi di separazione sono zero, che sono vicini, che sono amici. Quando poi la polemica del giorno ha raggiunto tutti gli account ecco che si muovono quelli che io chiamo “squaletti”: i commentatori d’accatto. Lasciano lì le loro paroline di conforto perché sanno che quello è il carro vincente del momento su cui saltare e chissà, magari qualcuno li nota e clicca su Segui, sai mai.
Lo spostamento della comunicazione tutta sull’io sono ha fagocitato la qualità della produzione: il cosmetico in questo caso non è più così importante perché si compra la persona e non quello che ha ideato. Così come si difende la persona e non il prodotto. E gli ovvi paragoni fra un brand e l’altro, un prodotto e l’altro finiscono per essere naturali quando tutti i marchi mettono in commercio, chi prima, chi dopo, gli stessi cosmetici, che differiscono tra loro solo per il packaging o perché uno sa di frutti di bosco e l’altro di pera.
Ricerca, innovazione, cambiamento, visione: chi ha tempo di curare la qualità se quello che conta è mostrare tutto il giorno cosa stai facendo?
Cose sparse
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al cinema a vedere The Whale. Non mi sono ancora ripresa del tutto.
Leggi leggi leggi così non scrolli: ho finito L’umanità è un tirocinio di Domenico Starnone, Einaudi (su di lui non posso esprimermi perché lo amo e non sarei obiettiva) e ho riletto Perché scrivere, un breve saggio di Zadie Smith sulla scrittura del 2011 pubblicato da minimum fax che rimane attualissimo.
Sul canale telegram sto sperimentando quanto sia piacevole avere una conversazione circolare dopo anni di one to one nei dm. Magari vuoi provare anche tu, clicca qua.
Ho cominciato a utilizzarla in settembre e credo che questa sia davvero la crema di cui non farò a meno mai più: Cicaplast Baume 5 di La Roche Posay. Fa praticamente tutto.
Ho finito, giuro. Cerca di stare bene e, se ti va, scrivimi un pensiero frivolo per la mia collezione.
Un abbraccio aggraziato,
Tamara
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